Maestro Lombardo, seguace di Giulio Romano
Stimolous Dedit Aemula Virtus
tempera su pergamena
250 x 185 mm (9.84 x 7.28 inches)
Maestro Lombardo, seguace di Giulio Romano
Stimolous Dedit Aemula Virtus
tempera su pergamena
250 x 185 mm (9.84 x 7.28 inches)
Rif: 0230
Descrizione:Un elefante bianco di piccole dimensioni procede maestoso verso sinistra, in un paesaggio rischiarato da una luce uniforme. Alla zampa posteriore è avvinto con le sue spire un serpente, che cerca di intralciarne il passo.
Il significato recondito di questa bellissima pergamena, manifesto della cultura manierista e dei suoi debiti nei confronti della classicità romana, è nel motto iscritto sul bordo nella cornice entro cui è raffigurata la scena: ‘STIMULOS DEDIT AEMULA VIRTUS’. Si tratta di una frase inserita in un verso (120) del Libro I della Pharsalia(o De bello civili), il poema epico di Marco Anneo Lucano dedicato alla contesa tra Cesare e Pompeo e più in generale alle guerre civili di Roma del I secolo A. C..
Lucano qui sta illustrando le ragioni dell’inizio delle lotte civili, soffermandosi su quei personaggi che avevano costituito un argine all’ambizione di Cesare (Marco Licinio Crasso, la sua stessa figlia Giulia, moglie di Pompeo), e la morte dei quali viene considerata, da parte dell’autore, l’evento scatenante per l’inizio della guerra. Per Lucano fu proprio l’emulazione del coraggio e dell’arditezza in battaglia a provocare un crescendo di ostilità da parte dei comandanti militari; e a causa di questo crescendo le basi stesse della civiltà romana rischiarono di andare in frantumi. L’immagine dell’elefante imperturbabile, che tuttavia è minacciato, nel suo incedere, dal serpente, allude però nello specifico ad un altro verso della Pharsalia, il 732 del Libro IX, laddove si racconta dell’orribile morte dei soldati di Catone, attaccati dai serpenti nel deserto libico: ‘nec tutus spatio est elephans: datis omnia leto’ [‘neanche l’elefante, con la sua immensa mole, è al sicuro: consegnate ogni cosa alla morte’]. La lotta tra il serpente e l’elefante, tema questo reiterato tante volte nella letteratura – fino alla digressione poetica di Antoine de Saint-Exupéry nell’episodio che segna l’incontro tra l’aviatore e il piccolo principe –, vale a dire che davanti alle discordie intestine in uno stato, o ancor di più alle guerre, nessuno può sentirsi in salvo.
E a questo punto dunque, considerata l’inquietudine di questo assunto, che l’iconografia della nostra pergamena può essere spiegata anche da un altro punto di vista: le piccole dimensioni dell’elefante e la proboscide sollevata a forma di S alludono ad un’immagine assai replicata nella Roma del XVI secolo, ovvero il ritratto eseguito da Giulio Pippi, detto Giulio Romano, dell’elefante Annone: la storia di questo famoso animale, originario dell’isola di Ceylon e giunto a Roma nel 1514, è emblematica della stagione più fortunata del Rinascimento dell’Urbe, nonché della sua improvvisa e triste fine (Bedini 1997). Annone era un elefantino bianco, donato dal re di Portogallo Manuele di Aviz a papa Leone X per la sua elezione al soglio pontificio. La leggenda vuole che Annone – battezzato con questo nome in onore del generale cartaginese, dal momento che si trattava del primo elefante giunto in Italia dai tempi di Annibale – fosse portato in trionfo tra due ali di folla in festa fino a Castel Sant’Angelo, al cospetto del neoeletto papa, davanti al quale si inginocchiò tre volte provocando ovviamente lo stupore degli astanti. ‘Adottato’ da Leone X e dato in custodia a Giovanni Battista Branconio e a Raffaello Sanzio, Annone visse due anni nel cortile del Belvedere, ricevendo regolari visite da parte del pontefice. La sua morte, a soli sette anni, nel 1516, suscitò commozione in tutta la città e anche l’impressione della transitorietà delle fortune e della vita stessa: Annone era l’emblema del patto riuscito tra uomo e natura e la repentina scomparsa dell’elefante venne intesa come il primo di una serie di foschi presagi che si dovevano abbattere su Roma e su tutta la cristianità.
La pergamena qui in esame prende le mosse, come detto, da una serie di studi di Giulio Romano, di cui abbiamo testimonianza in un celebre foglio (già assegnato a Raffaello) oggi nelle raccolte dell’Ashmolean Museum di Oxford (in particolare è la figura di destra nel disegno ad essere sostanzialmente replicata: M. Welzig, in Giulio Romano1989, pp. 262-265). Gli studi occorrevano a Giulio per una raffigurazione della Battaglia di Zama, oggi andata perduta ma a noi nota attraverso un’incisione di Cornelis Cort (Sellink 2000, pp. 92-93, n. 196) e una copia di un anonimo maestro romano di secondo Cinquecento conservata presso il Museo Puskin di Mosca (Markova 2002, I, pp. 203-205, n. 116). Anche le splendide figure che decorano la cornice – Sibille di tradizione michelangiolesca, telamoni, mascheroni dalle cui bocche pendono trofei di frutta, putti alati – recano i segni dell’intelligenza figurativa del Pippi, sebbene attestino una sedimentazione di riferimenti culturali diversi e presuppongano dunque una collocazione cronologica attorno alla metà del secolo.
Ancora un elefante, ritratto frontalmente con le lunghe zanne e gli occhi piccoli e penetranti, chiude la serie di decorazioni della cornice in basso: anche qui si tratta di una memoria di Annone (Raffaello ne aveva già usato il ritratto in alcune decorazioni delle Logge Vaticane). Tuttavia l’animale mansueto, cantato dai poeti e celebrato in una commedia di Pietro Aretino per la sua natura ed intelligenza quasi umana, qui si trasforma in una fiera dallo sguardo minaccioso: la stagione del razionalismo e del patto indissolubile tra uomo e natura evidentemente aveva ceduto il passo a nuove e incombenti apprensioni.
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