Alberto Pasini

(Busseto 1826 - 1899 Torino)

Viaggianti a Cavalli a Riposo alle porte di Istanbul, 1869

olio su tela, 77 x 127 cm (30.31 x 50.00 inches)

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Alberto Pasini

(Busseto 1826 - 1899 Torino)

Viaggianti a Cavalli a Riposo alle porte di Istanbul, 1869

olio su tela, 77 x 127 cm (30.31 x 50.00 inches)

Rif: 860

Provenienza: Collezione Gussoni, Milano

Descrizione:

“Il pittore dell’Oriente, della luce argentina del Bosforo, del cielo sorridente del Corno d’oro; delle imponenti foreste del Libano; del verde tenero delle pianure della Siria e delle distese infuocate della Persia, ove si caccia col falco; delle ombre misteriose colorite, calde e trasparenti nella stessa loro oscurità, nell’interno delle Moschee e dei palazzi; del fascino del colore vibrante, ammaliante e voluttuoso della natura orientale”. Così veniva definito Alberto Pasini, all’indomani della sua morte, da parte dell’amico e critico Giulio Carotti, in un articolo comparso ‘in memoriam’ sulla rivista Emporium[i]. E del resto il giudizio lusinghiero di Carotti nei confronti dell’artista era largamente condiviso in Italia e in Europa: Pasini veniva unanimemente riconosciuto come il più grande pittore ‘orientalista’ italiano, testimone di primo piano dell’interesse e dell’attrazione che le terre del vicino Oriente suscitavano negli animi degli europei, nell’epoca delle invasioni coloniali come delle grandi scoperte archeologiche sul Bosforo[ii].

Pasini, del resto, dopo una lunga formazione presso l’Accademia di belle arti di Parma, aveva completato il suo apprendistato a Parigi entrando nella bottega di Eugène Cicéri, esponente della scuola di Barbizon. Era il 1852, lo stesso anno in cui Napoleone III aveva instaurato il Secondo Impero francese, all’epoca limitato alla madrepatria e all’Algeria, ma in procinto di espandersi assai velocemente. Nel 1854 Pasini inizia la collaborazione col famoso pittore orientalista Théodore Chassériau, il quale caldeggia il suo nome al diplomatico Nicolas Prosper Bourée: è la svolta per la carriera del nostro artista, chiamato ad accompagnare Bourée in una missione coloniale lunga un anno e mezzo in Persia, Turchia, Arabia ed Egitto. L’oriente diventa per Pasini un’inesauribile fonte d’ispirazione: soprattutto sul piano emotivo e personale, come testimonia la lunga amicizia con lo scià di Persia. La sua arte però si distanzia dall’orientalismo di marca romantica della prima metà dell’Ottocento: Delacroix, Gerome, lo stesso Chassériau – e in Italia Hayez e più avanti Domenico Morelli – avevano favoleggiato di un Oriente letterario e dunque inventato, un ‘altrove’ ideale che era pure un’implicita critica all’egemonia in Europa della cultura borghese, da loro ovviamente disprezzata. Pasini invece è un pittore realista, formato sui modelli dei maestri di Barbizon, ed è investito dal governo francese del compito di documentare la natura dei territoti da lui visitati, in un’epoca nella quale realizzare fotografie negli spazi aperti era ancora un’operazione laboriosa. L’esattezza della visione dei suoi paesaggi, condotti quasi sempre ad altezza d’uomo per illustrare in modo più chiaro l’umanità che li abitava e gli stili di vita che si proponevano nei luoghi descritti, conduceva l’artista ad esiti formali non distanti da quelli che, nello stesso periodo, raggiungevano Gustave Courbet e Jean-François Millet nella loro narrazione della quotidianità della Francia rurale.

L’opera qui introdotta è firmata e datata 1869: appartiene dunque al periodo successivo al secondo soggiorno del pittore ad Istanbul, occorso due anni prima[iii]. E la città che unisce i due continenti difatti si nota sul fondo di questo magnifico paesaggio, con il profilo al centro di Santa Sofia e il Promontorio del Serraglio a destra. Tuttavia Istanbul, la metropoli “dalle cupole imponenti e dagli eleganti minareti che si direbbe messi là per sostenere la volta del cielo”, secondo la descrizione che ne lasciò proprio Pasini in una delle sue missive[iv], è qui osservata da lontano, dai pascoli dell’Anatolia, presso le tende e i fuochi dei mandriani. L’attenzione dell’artista è dedicata ai profili dei cavalli, resi con guizzanti colpi di colore e illuminati dalla luce calda e meridiana del sud. Il ‘verismo’ di Pasini anticipa di circa vent’anni gli esperimenti letterari di Giovanni Verga e Luigi Capuana, e dà vita qui ad una vera e propria sospensione del tempo, tra vecchi inturbantati, che dal loro aspetto emanano un senso di saggezza, e il movimento delle tende battute dal vento sempiterno. Questo carattere atemporale e sognante è lo stesso che si ricava da un’opera di poco precedente del pittore: la Carovana presso il Mar Rosso, tela del 1864 oggi conservata alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti a Firenze[v]: in entrambi i dipinti le figure sono rese con un tratto sommario, ma allo stesso tempo con una formidabile attenzione al dettaglio minuto. Si tratta nondimeno della prerogativa principale dell’arte di Pasini, giustamente celebrato nei Salon e premiato nel 1878 dalla Terza repubblica francese con la nomina di ufficiale della Legion d’onore.

 



[i] G. Carotti, Artisti contemporanei: Alberto Pasini. In memoriam, in “Emporium”, X, 1899, 60 pp. 485-504 (la citazione è a p. 485).

[ii] Su Pasini: V. Botteri Cardoso, Pasini, Genova 1991; Pasini e l’Oriente. Luci e colori di terre lontane, a cura di P. Serafini e S. Roffi, catalogo della mostra (Maminao di Traversetolo, Fondazione Magnani-Rocca, 17 marzo – 1° luglio 2018), Cinisello Balsamo, Milano 2018.

[iii] Del dipinto, noto finora solo attraverso una fotografia del 1934, non si conosceva la datazione. Questa è ricomparsa in occasione della recente pulitura. Botteri Cardoso inseriva la tela nel gruppo di opere eseguite dal pittore tra il 1860 e il 1867: Botteri Cardoso cit., 1991, p. 279, n. 372. 

[iv] Lettera a Carlo Felice Biscarra: Costantinopoli. Reminiscenze artistiche dal vero, Parigi, dicembre 1868.

[v] Inv. cat. gen. n. 89: R. Cobianchi, in Alberto Pasini da Parma a Costantinopoli via Parigi, a cura di G. Godi e C. Mingardi, catalogo della mostra (Parma, Fondazione Cassa di Risparmio, 1996), Parma 1996, pp. 214-215, n. 21.