Giovanni Antonio da Pesaro

(Pesaro 1415 - ante 1478)

Crocifissione, c. 1440

tempera su tavola, fondo oro, 42 x 28,5 cm (16.54 x 11.22 inches)

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Giovanni Antonio da Pesaro

(Pesaro 1415 - ante 1478)

Crocifissione, c. 1440

tempera su tavola, fondo oro, 42 x 28,5 cm (16.54 x 11.22 inches)

Rif: 740

Provenienza: Collezione Alana, New York

Bibliografia:

Mostra Nazionale Antiquaria. Quattrocento pitture inedite, catalogo della mostra (Venezia, Procuratie Nuove), Venezia 1947, pp. X, 5, n. 15, tav. 1
Mostra della pittura bolognese del Trecento, catalogo della mostra (Bologna, Pinacoteca Nazionale), Bologna 1950, pp. 22, 35, n. 107
S. Bottari, C. Volpe, La pittura in Emilia nella prima metà del Quattrocento, dispensa al corso tenuto all’Università di Bologna nell’Anno Accademico 1957-58, Bologna 1958, p. 38
A. Porcella, in Mostra di antiche pitture e di scultura contemporanea, catalogo della mostra (Verbania, Teatro Sociale di Intra), Verbania 1960, pp. 27-29, 40
R. Longhi, Pittura bolognese ed emiliana del Trecento, in Id., Edizione delle opere complete, VI, Lavori in Valpadana dal Trecento al primo Cinquecento 1934-1964, Firenze 1973, p. 166
C. Volpe, La pittura nell'Emilia e nella Romagna. Raccolta di scritti sul Trecento e Quattrocento, a cura di D. Benati e L. Peruzzi, Modena 1993, pp. 69-70, fig. 124
A. De Marchi, Una tavola nella Narodna Galeria di Ljubljana e una proposta per Marco di Paolo Veneziano, in Gotika v Sloveniji. Nastajanje kulturnega prostora med Alpami, Panonijo in Jadranom, a cura di Janez Höfler, atti del convegno internazionale di studi (Ljubljana, Narodna Galerija, 20-22 ottobre 1994), Ljubljana 1995, pp. 249-251, nota 36
C. Guerzi, in Gentile da Fabriano e l’altro Rinascimento, a cura di L. Laureati e L. Mochi Onori, catalogo della mostra (Fabriano, Spedale di Santa Maria del Buon Gesù), Milano 2006, p. 106
M. Minardi, in The Alana Collection. Italian Paintings from the 14th to 16th Century, III, Firenze 2014, pp. 117-124, n. 17.

Fondazione Federico Zeri n. 26245

 

Cristo è descritto nel momento del trapasso, con gli occhi chiusi e il sangue che versa abbondante dalle ferite; ai suoi lati la Vergine e San Giovanni, piangenti, sembrano urlare il loro dolore con le bocche spalancate e i lineamenti trasfigurati dalla sofferenza. In basso una piccola balza, sulla quale s’imposta l’asse verticale della croce, finge il profilo del Golgota.

Questa preziosa tavola, notevole anche per il perfetto stato di conservazione nel quale ci è pervenuta, è un’importante testimonianza del passaggio tra Tardogotico e primo Rinascimento in Italia centrale. L’unione di elementi di realismo espressivo di derivazione medievale e indole plastica delle forme – segno della transizione verso la cultura prospettica – ha suscitato, negli ultimi ottant’anni, l’interesse di collezionisti di prim’ordine; e ha dato sovente spunto a riflessioni, da parte degli storici, riguardo innanzitutto la provenienza geografica di un’opera di questo genere. Da una nota a penna, sulla foto conservata in archivio nella Fondazione ‘Roberto Longhi’ a Firenze (inv. n. 0650140) sappiamo che il dipinto nel 1944 era di proprietà dell’antiquario Vittorio Frascione, del quale proprio Longhi era uno dei maggiori consulenti[i]. Tre anni dopo compariva alla mostra antiquaria organizzata presso il palazzo delle Procuratie Nuove a Venezia: la perizia, condotta per l’occasione da Gino Calore e Giuseppe Fiocco, conduceva all’attribuzione ad un anonimo maestro toscano della prima metà del Quattrocento, venato da un certo ‘masaccismo’ come sosteneva Alberto Riccoboni nell’introduzione al catalogo[ii]. Sostanzialmente diverso era il giudizio di Longhi, che nel 1950 decideva di inserire la tavola nella Mostra della pittura bolognese del ‘300, da lui organizzata presso la Pinacoteca Nazionale felsinea: secondo l’avviso dello storico il dipinto era opera giovanile di Giovanni da Modena, accostabile nella tenuta patetica alla tavola col medesimo soggetto del Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma, nonché alla famosa Crocegià in San Francesco a Bologna (oggi in Pinacoteca)[iii]. Qualche anno dopo Carlo Vope, precisando le argomentazioni di Longhi sulla tavola e sostenendo anche lui quindi il riferimento a Giovanni da Modena, ravvisava tuttavia nei profili delle figure “una nostalgia mentale per modelli arcaici e neo-giotteschi, incongruamente ombreggiati con la sensibilità chiaroscurale di una malintesa cultura assai più moderna”[iv]. Vi era in sostanza espressa per Volpe un’indole da ‘Rinascimento umbratile’ in salsa padana, che presupponeva una datazione attorno al 1430 – coerente quindi con l’attribuzione proposta –, ma lasciava altresì trasparire dei rimandi toscani non troppo consueti nell’arte di Giovanni, improntata invece sulla tradizione del Gotico in Italia settentrionale. Seppur in nuce, lo storico postulava pertanto un dubbio circa la cultura di appartenenza del dipinto, sospeso tra tradizioni fra loro difficilmente conciliabili. Sta di fatto che nella mostra antiquaria di Verbania del 1960 la tavola, passata intanto ad una collezione piemontese, veniva esposta con un riferimento a Jacopo Avanzi, altro maestro emiliano ma assai più coerente con quel recupero del plasticismo neogiottesco che Volpe aveva già ravvisato nell’opera[v].

Nel 1995 Andrea De Marchi, a margine di un contributo dedicato ai pittori veneti del secondo Trecento in Istria, proponeva l’attribuzione della tavola a Cristoforo Cortese, miniatore veneziano dalle forti tangenze con la cultura padovana e felsinea[vi]. Merito recente di Miklòs Boskovits[vii]è quello di aver individuato il giusto riferimento nella figura invece di Giovanni Antonio Bellinzoni, altro autore vicino alla tradizione emiliana – figlio non a caso di un maestro originario di Parma –, ma che con la sua opera segna l’inizio del Rinascimento in un altro territorio: di preciso a Pesaro, sua città natale, ma più generalmente in tutte le Marche settentrionali – i documenti lo vedono operante in un’area che va da Gradara fino a Cingoli, nell’alto maceratese. Con tale attribuzione il dipinto passa negli ultimi anni nella prestigiosa Collezione Alana di Newark (Delaware), laddove viene nuovamente pubblicato con un lungo contributo da parte di Mauro Minardi[viii].

Giovanni Antonio Bellinzoni, figlio di Giliolo, nasce attorno al 1415 e comincia operare, al seguito del padre, alla metà del quarto decennio del secolo: nei lavori svolti in collaborazione fra padre e figlio, come la prima campagna decorativa per la chiesa di San Francesco a Pesaro (oggi Santa Maria delle Grazie) – fase questa cui spetta l’affresco con la Beata Michelinaconservato nella sagrestia –, o ancora i Tre santi, già parte del polittico della Parrocchiale di Gabicce Monte (Pesaro, Musei Civici), emerge chiaramente un’impostazione ancora tardotrecentesca che affonda le sue radici nella cultura dei bolognesi Jacopo Avanzi e Jacopo di Paolo e più in generale nel recupero della cifra formale giottesca maturato nella pittura padana di fine secolo[ix]. Un deciso passo avanti, nell’emancipazione di Giovanni Antonio dallo stile del padre, può essere considerato il ciclo di affreschi della chiesa di San Francesco di Rovereto presso Saltara (Pesaro-Urbino)[x]: se è vero che anche in questo caso la decorazione deve essere giudicata opera di ensemblefra i due artisti, è apprezzabile un preciso aggiornamento che va imputato verosimilmente al ruolo trainante ricoperto qui dal giovane maestro. Siamo nel 1436 – lo attesta l’iscrizione lasciata ai piedi dell’ultima figura di santo a destra – e Giovanni Antonio ormai è artista pienamente formato e consapevole dei suoi mezzi. La prossimità fra la Crocifissione e dolenti, collocata al centro dei due gruppi di Santi nella calotta absidale, e il nostro dipinto – nondimeno di analogo soggetto – è la prova dell’esattezza del riferimento proposto per la nostra tavola da Boskovits, ribadito poi da Minardi, e ormai divenuto consueto.

L’oscillazione fra culture di pertinenza, che traspare dai giudizi della storiografia di cui si è dato conto, è evidente dalla lettura formale della Crocifissionequi in esame, sospesa tra l’indole lineare vibrante di ascendenza lombarda e la posatezza monumentale delle figure, isolate da un forte segno grafico nei contorni e da un robusto e plastico chiaroscuro. Rispetto agli affreschi di Saltara e alle tavolette con Storie di San Biagiodivise tra le raccolte del Museo Nazionale di Palazzo Venezia e varie collezioni private – gruppo questo ricostruito da Federico Zeri e assegnato dallo storico alla fase giovanile di Giovanni Antonio – nella tavola qui presentata si può notare una ricerca espressiva che rinvia a contemporanee esperienze nella pittura senese, nonché ad un primo momento di tangenza tra Giovanni Antonio e Bartolomeo di Tommaso – il quale peraltro nella stessa fase era attivo per le chiese di Fano e Ancona. Ci troviamo dunque al passaggio del decennio, momento cruciale per la carriera del nostro maestro, ma anche e soprattutto per gli esordi della pittura del Rinascimento nell’Italia appenninica. D’altro canto il raffinato uso del punzone, la delicatezza dei passaggi di tono nelle pieghe dei mantelli rossi dei dolenti, la tenuta minuziosa nella resa dei dettagli naturalistici trasmettono chiara la memoria dei modelli di Gentile e del Gotico Internazionale: in sostanza l’opera, uno dei punti più alti dell’attività di un artista di primo livello, è la testimonianza palpabile dell’incontro tra culture parallele, entrambe vive e destinate a convivere ancora almeno un paio di decenni in molte aree della nostra penis



[i]La foto è nella busta di Giovanni da Modena, ma è noto che Longhi, nel 1946, in una nota scritta ne sostenne l’attribuzione a Jacopo Avanzi: si veda al riguardo M. Minardi, in The Alana Collection. Italian Paintings from the 14th to 16th Century, III, Firenze 2014, p. 123, nota 4.

[ii]A. Riccoboni, in Mostra Nazionale Antiquaria. Quattrocento pitture inedite, catalogo della mostra (Venezia, Procuratie Nuove), Venezia 1947, p. X

[iii]R. Longhi, in Mostra della pittura bolognese del Trecento, catalogo della mostra (Bologna, Pinacoteca Nazionale), Bologna 1950, p. 22.

[iv]S. Bottari, C. Volpe, La pittura in Emilia nella prima metà del Quattrocento, dispensa al corso tenuto all’Università di Bologna nell’Anno Accademico 1957-58, Bologna 1958, p. 38.

[v]A. Porcella, in Mostra di antiche pitture e di scultura contemporanea, catalogo della mostra (Verbania, Teatro Sociale di Intra), Verbania 1960, pp. 27-29.

[vi]A. De Marchi, Una tavola nella Narodna Galeria di Ljubljana e una proposta per Marco di Paolo Veneziano, in Gotika v Sloveniji. Nastajanje kulturnega prostora med Alpami, Panonijo in Jadranom, a cura di Janez Höfler, atti del convegno internazionale di studi (Ljubljana, Narodna Galerija, 20-22 ottobre 1994), Ljubljana 1995, pp. 249-251, nota 36.

[vii]M. Boskovits, in A. Galli,Porro & C.Dipinti Antichi e Dipinti del XIX secolo, Milano, 25/11/2009, p. 8, n. 3.

[viii]Minardi cit., 2014, pp. 117-124, n. 17.

[ix]P. Berardi, Giovanni Antonio Bellinzoni da Pesaro, Bologna 1988, pp. 35-40.

[x]Gli affreschi, già assegnati da Carli ad Antonio Alberti, sono stati poi riconosciuti a Giovanni Antonio da Pesaro da Zeri: F. Zeri, Giovanni Antonio da Pesaro, in “Proporzioni”, II, 1948, pp. 164-167 (p. 166).