Cenni di Francesco di Ser Cenni
(Attivo a Firenze, documentato dal 1369 - 1415 Firenze)
Tabernacolo Portatile, 1375 - 1380
tempera su tavola, fondo oro, 77 x 73,5 cm (30.31 x 28.94 inches)
- Riferimento: 811
- Provenienza: Torino, collezione barone Alberto Fassini
Bibliografia:
L. Venturi, Pitture dal Trecento all’Ottocento, in Collezione d’Arte del Barone Alberto Fassini, tomo 1, Milano-Roma, 1930, Tav. VI
M. Boskovits, Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento, 1370-1400, Firenze, 1975, pp. 78, 285 e tav. 87
H. B. J. Maginnis, R. Offner, A Legacy of Attributions, “Corpus of Florentine Painting - Supplement”, New York, 1981, p. 53
F. Botto, La Trinità all’altare di Santa Trinita a Firenze. Un caso di studio. in “Arte Cristiana”, CVII, N. 913, 2019, pp. 282-291
Fototeca Zeri
n. 2874
Pittore e miniatore fiorentino, immatricolatosi all’Arte dei Medici e Speziali nel marzo 1369. La sua formazione artistica si svolse probabilmente a contatto con alcuni maestri di stretta formazione orcagnesca attivi nel terzo quarto del Trecento, quali il Maestro della Misericordia – alias, probabilmente, Giovanni Gaddi –, Matteo di Pacino e Giovanni del Biondo. In passato, l’attività più antica del pittore fu inizialmente riferita a diverse personalità artistiche con denominazioni critiche di comodo: “Maestro della santa Caterina Kahn” (Berenson); “Rohoncz Orcagnesque Master” (Offner); “Maestro di San Cristoforo a Perticaia”. Furono soprattutto le ricerche di Federico Zeri[1] e di Miklós Boskovits[2] a individuare nelle opere attribuite a queste personalità fittizie la produzione più antica del pittore. La prima opera di Cenni di sicura datazione è il polittico smembrato della chiesa di San Cristoforo a Perticaia (Rignano sull’Arno, Firenze), dove si conservano la Madonna col Bambino in trono tra i santi Cristoforo e Margherita, recante la data del 1370, mentre un ulteriore scomparto raffigurante un Santo Vescovo, quasi certamente da identificare con San Leolino, è al Museo Diocesano di Milano[3]. Nello svolgimento ulteriore del suo percorso, durante l’ultimo ventennio del XIV secolo, l’artista aderì con convinzione alla tendenza tardogotica capeggiata da Agnolo Gaddi, sviluppando un linguaggio accattivante e didascalico che incontrò un indubbio favore da parte dei committenti, come attesta il catalogo dei suoi dipinti arrivati fino a noi che ormai conta quasi novanta numeri, comprendente anche alcuni esemplari di miniatura, specialità che egli dovette coltivare solo sporadicamente.
L’ultima fase della sua attività è inaugurata dal trittico dipinto per la chiesa di San Giusto a Montalbino, oggi nel Museo di Arte Sacra di Montespertoli (Firenze), recante la data del 1400. La sua impresa più celebre è costituita dalla decorazione ad affresco con le Storie della Vergine e la Leggenda della Vera Croce nell’Oratorio della Croce presso la chiesa di San Francesco a Volterra, recante la firma e la data del 1410, che riflette il vasto ciclo di Agnolo Gaddi di analogo soggetto nella cappella maggiore in Santa Croce a Firenze. La predilezione nel mettere in scena elaborati fondali architettonici e la curiosità instancabile verso gli aspetti più minuti della moda del tempo, dei paesaggi naturalistici e perfino della fauna[4], esalta la fresca vena narrativa dell’artista e lo consacra fra i maggiori divulgatori del linguaggio tardogotico della regione. Il pittore dovette morire poco oltre il 1415, anno in cui risulta iscritto alla Compagnia di San Luca[5].
L’altarolo qui in esame presenta un’iconografia ricca e assai articolata, che inoltre pone alcuni quesiti interessanti. Il tema principale che attrae subito l’attenzione dell’osservatore è quello della raffigurazione nella parte cuspidale della tavola centrale della Trinità nella forma dei tres viri, riferita all’episodio narrato nella Bibbia dell’apparizione di Dio ricevuta da Abramo, per l’appunto sotto forma di tre uomini (Genesi, 18, 1-6). Un filone autorevole dell’esegesi cristiana ha sottolineato l’episodio come prefigurazione veterotestamentaria del Dio trino rivelatosi in Cristo[6], e su queste basi il tema iconografico ha avuto una certa diffusione in diverse aree della penisola specialmente nel XIV secolo. Come sottolineato da Boskovits[7], il pittore dimostra il suo impegno verso il riguardante nel rendere più chiaro possibile il significato della complessa raffigurazione, mediante il particolare davvero gustoso del profeta Simeone e della profetessa Anna che si sbracciano per indicare l’importanza della scena che si svolge sopra di loro. L’identificazione puntuale della folta schiera di santi presente nella parte centrale della tavola è resa quasi sempre piuttosto incerta per la mancanza di attributi specifici o di particolari utili dell’abbigliamento. Più sicura appare l’identificazione della coppia situata in alto a destra con i santi Giovanni Battista e Andrea, nonché quella del giovane santo diacono in primo piano con san Lorenzo – sulla coperta del libro da lui recato sembra di poter distinguere una graticola –, in atto di presentare la giovane donatrice vestita assai elegantemente. Un altro quesito interessante è posto dai due giovani abbigliati in maniera esattamente uguale, genuflessi in primo piano a sinistra, alle spalle di un’altra donatrice, che sembrerebbe vestita da terziaria domenicana, oppure con l’abito delle suore Serve di Maria. I due giovani presentano due aureole cerchiate di nero e dorate a mordente senza alcuna preparazione sottostante, e pertanto svanite in gran parte, al punto da lasciar trasparire le vesti del santo posto dietro a loro, identificabile molto probabilmente con san Giuliano. In effetti, i due giovani – forse membri di una compagnia – dovevano far parte in origine del gruppetto dei donatori, insieme alla religiosa che hanno di fronte e alla giovane genuflessa sulla destra e presentata da san Lorenzo. I due, presentati da san Giuliano, furono verosimilmente accreditati come una coppia gemella di santi – sul genere dei santi Cosma e Damiano, oppure dei santi Nereo e Achilleo – solo in un momento successivo, per ragioni a noi ignote, mediante l’apposizione delle due aureole chiaramente posticce.
Nello sportello sinistro, la scena centrale con il matrimonio di due giovani è stata identificata da Boskovits[8] con lo Sposalizio di Santa Cecilia. Tuttavia, in quest’ultima scena di solito un angelo pone sulla testa di Cecilia e del marito Valeriano una ghirlanda di fiori. In questo caso, invece, l’angelo ha un diadema sulla testa ed è vestito in maniera molto più ricca e fastosa, in modo tale da suggerire che possa trattarsi di un arcangelo. Quindi la scena dovrebbe potersi identificare con l’Arcangelo Raffaele che unisce in matrimonio Tobia e Sara, l’episodio più riassuntivo e simbolico del Libro di Tobia della Bibbia, incentrato sull’esaltazione del matrimonio cristiano. E tale identificazione è confermata anche da Federico Zeri (scheda n. 2874 della Fototeca), che tuttavia attribuiva il trittico al cosiddetto Maestro della Cappella Rinuccini, alias Matteo di Pacino, come vedremo più avanti. A proposito di questa scena, mette conto di sottolineare, giusto sul piano dello stile, la sensibile vicinanza che intercorre con la Santa Caterina d’Alessandria in trono con i santi Cosma e Damiano e due donatrici, un tempo nella Collezione Kahn a New York e oggi al Metropolitan Museum of Art (inv. 1982.35.1), che condivide con il nostro tabernacolo l’attribuzione a Cenni di Francesco e la datazione al 1375-1380 circa. Tuttavia, le particolarità iconografiche di questo intrigante tabernacolo non finiscono qui, poiché anche le due scene dipinte sul tergo degli sportelli, visibili quando questi ultimi sono richiusi sopra la tavola centrale, presentano qualche aspetto di una certa rarità.
La consueta raffigurazione sul tergo dello sportello sinistro del Vir dolorum emergente per metà dal sepolcro, con i simboli della Passione sullo sfondo – largamente diffusa su tavola e in affresco nella Toscana a cavallo fra Tre e Quattrocento – è resa relativamente più rara per la presenza della figura femminile nimbata, avvolta in un sudario e in atto di adorazione sulla sinistra. Si tratta con ogni verosimiglianza di una rara, anzi rarissima immagine della Maddalena, che appare simmetricamente e quasi in posizione identica ai piedi della Crocifissione dipinta sul tergo dello sportello destro. La rilevanza data in questo modo alla figura di Maria Maddalena è assoluta: presente ai piedi della croce nel momento della morte di Gesù, insieme alla Vergine e a Maria, moglie di Cleofa e madre di san Giacomo, il Minore (Giovanni 19, 25; Matteo 27, 56), anche questa una presenza non troppo consueta sul piano iconografico; presente, inoltre, di fronte al Vir dolorum, e avvolta come lui in un sudario. Quindi, un accento fortissimo posto sulla sua figura, che sembrerebbe suggerire la commissione del tabernacolo da parte di una compagnia o di una confraternita a lei intitolata.
Il tabernacolo è arrivato fino a noi in uno stato di conservazione complessivamente soddisfacente. Nelle foto più antiche, come quella dell’archivio del “Corpus of Florentine Painting”[9], si può vedere ancora la cornice originale con le foglie dorate, le dentellature nello zoccolo e nelle parti interne delle cuspidi, e le colonnine tortili presenti anche lungo gli sportelli. Nella foto pubblicata da Boskovits[10] non si vedono più le foglie dorate sull’esterno delle parti cuspidate. Una piccola crettatura attraversa verticalmente la tavola centrale, passando davanti a san Pietro genuflesso nella cuspide a sinistra, lambendo il fianco sinistro della Madonna e dividendo in due parti la donatrice in abito religioso. In entrambi i margini inferiori degli sportelli è visibile un’integrazione ‘a rigatino’ di circa un centimetro e mezzo, causata con ogni probabilità dalla rimozione della cornice. La stessa integrazione si riscontra sul tergo degli sportelli, alla base delle due scene con il Vir dolorum e la Crocifissione. Tutta la parte superiore era in argento meccato, di cui si distinguono più distintamente alcuni resti nel triangolo centrale dello sportello sinistro. Entrambi gli sportelli sono arricchiti da una fitta decorazione punzonata con i classici motivi della rosetta a sei petali e degli archetti trilobati, largamente impiegati nella pittura fiorentina dell’epoca. Nel complesso, la superficie pittorica appare in buone condizioni di conservazione. Il tabernacolo fu pubblicato per la prima volta da Adolfo Venturi[11] nel catalogo della collezione romana del Barone Alberto Fassini, con l’attribuzione a un seguace di Taddeo Gaddi, quindi con la giusta individuazione della matrice culturale fiorentina. Il dipinto era noto anche a Richard Offner, che lo riferiva al cosiddetto “Rohoncz Orcagnesque Master”, la cui attribuzione è stata resa nota però molti anni più tardi[12]. Come detto in principio questo gruppo è stato poi riunito dal Boskovits[13] nel catalogo di Cenni di Francesco. L’opera era classificata invece da Federico Zeri (Fototeca Zeri, scheda n. 2874) come del cosiddetto Maestro della Cappella Rinuccini, identificato da Luciano Bellosi[14]con il pittore fiorentino Matteo di Pacino. Occorre ammettere che nel corso di questa fase giovanile della sua attività Cenni di Francesco mostra in effetti alcuni accenti simili, anche sul piano morfologico, a quelli riscontrabili nelle opere di questo petit-maître fiorentino, che tuttavia non riuscirà mai a superare nel corso della sua carriera l’orizzonte della vasta cerchia orcagnesca.
La giusta restituzione del tabernacolo al periodo giovanile di Cenni di Francesco si deve al Boskovits[15], che pubblica l’opera quando si trovava in collezione privata a Bergamo, dove risulta pervenuta nel 1969 circa. Il dipinto è stato riprodotto di recente[16] in uno studio dedicato in prevalenza al tema iconografico della Trinità all’altare, tuttavia con una datazione al 1390-1400 circa che appare troppo inoltrata.
Il tabernacolo, dunque, è tra le opere più significative della prima fase dell’attività di Cenni di Francesco, soprattutto nel documentare il suo precoce distacco dalle rigide formule stilistiche e compositive applicate nel campo largo del seguito orcagnesco, che beneficerà del favore di una parte della committenza fino all’ultimo scorcio del secolo. Il nostro artista dimostra invece in questo dipinto, databile secondo noi nella seconda metà degli anni settanta del Trecento, di aver approfittato prontamente degli elementi di novità introdotti sulla scena artistica fiorentina da Agnolo Gaddi, già all’inizio di quel decennio. La chiarezza nell’ordinare le numerose scene raffigurate, la gamma cromatica tenera e luminosa, i personaggi e i panneggi in cui sono avvolti ottenuti con un disegno sicuro, ma nel con- tempo morbido, ma soprattutto la predisposizione per una narrazione fresca e vivace, rinviano infatti al più promettente figlio di Taddeo Gaddi, che nel corso dell’ultimo quarto del secolo contribuì in maniera decisiva all’affermazione del linguaggio tardogotico, conquistandosi un numero ragguardevole di seguaci.
Come già accennato, un confronto stilistico interessante per il tabernacolo qui discusso appare quello con la Santa Caterina d’Alessandria in trono con i santi Cosma e Damiano e due donatrici, un tempo nella Collezione Kahn a New York e oggi al Metropolitan Museum of Art (inv. 1982.35.1), mentre la vicinanza dell’artista alle compagnie religiose è confermata dal bel Vir dolorum con due flagellanti, un tempo in collezione privata a Colonia, che ben si accosta al Vir dolorum sul tergo dello sportello sinistro del nostro tabernacolo, seppure sia di qualche tempo più inoltrato, sullo scorcio del Trecento.
[1] F. Zeri, La mostra “Arte in Valdelsa” a Certaldo, in “Bollettino d’arte”, XLVIII, 1963, p. 255, nota 5.
[2] M. Boskovits, Ein Vorläufer der spätgotischen Malerei in Florenz: Cenni di Francesco di ser Cenni, in “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, XXXI, 1968, pp. 273-292 (pp. 273-276); Id., Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento 1370-1400, Firenze 1975, pp. 285- 294).
[3] A. Tartuferi, in Museo Diocesano, a cura di P. Biscottini, Milano 2011, pp. 34-35, n. 12.
[4] Cfr. S. Chiodo, in The Alana Collection (Newark, Delaware, USA). Italian Paintings from the 13th to the 15th century, a cura di M. Boskovits, Firenze 2009.
[5] W. Jacobsen, ad vocem Cenni di Francesco di ser Cenni, in Allgemeines Künstlerlexikon die bildenden Künstler aller Zeiten und Völker, XVII, Berlin, Boston 1997, p. 518.
[6] F. Botto, La Trinità all’altare di Santa Trinita a Firenze, in “Arte cristiana”, CVII, 2019, 913, pp. 282-291 (p. 289, nota 2).
[7] Boskovits cit., 1975, p. 78.
[8] Ivi, p. 285.
[9] Botto cit., 2019, fig. 18.
[10] Boskovits cit., 1975, tav. 87.
[11] A. Venturi, Pitture dal Trecento all’Ottocento, in Collezione d’Arte del Barone Alberto Fassini, I, Milano-Roma 1930, tav. VI.
[12] H. B. J. Maginnis, R. Offner, A Legacy of Attributions, “A critical and historical corpus of Florentine painting – Supplement”, V. I, New York 1981, p. 53.
[13] Boskovits cit., 1968.
[14] L. Bellosi, Due note per la pittura fiorentina di secondo trecento, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, XVII, 1973, 1, pp. 179-194.
[15] Boskovits cit., 1975.
[16] Botto cit., 2019, p. 291, nota 43.