Agnolo di Taddeo Gaddi

(Firenze 1369 - 1396 Firenze)

Madonna col Bambino, 1370-1375

tempera su tavola, fondo oro, 48,5 x 38 cm (19.09 x 14.96 inches)

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Agnolo di Taddeo Gaddi

(Firenze 1369 - 1396 Firenze)

Madonna col Bambino, 1370-1375

tempera su tavola, fondo oro, 48,5 x 38 cm (19.09 x 14.96 inches)

Rif: 808

Provenienza: Santa Maria Novella, Firenze (?); Collezione privata

Bibliografia:

A.Tartuferi, The Early Career of Agnolo Gaddi and a New Madonna and Child, Milano, 2021

Fototeca Zeri
n. 1945

Descrizione:

L’opera più antica di Agnolo Gaddi arrivata fino a noi è con ogni probabilità il trittico – o forse, in origine, un polittico a cinque scomparti – costituito dal Cristo benedicente e dal San Pietro della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, già di proprietà dell’antiquario-collezionista Carlo De Carlo, cui va unito il san Giovanni Battista di collezione privata. La qualità di questi dipinti è molto alta e denota un’artista in possesso di un disegno sottile e preciso, che inoltre definisce le forme con accurata delicatezza. I caratteri stilistici del suo linguaggio sembrano rinviare al contesto artistico fiorentino che vede protagonisti artisti quali Nardo di Cione, il Maestro di San Lucchese, il giovane Giovanni Bonsi, Giotto di maestro Stefano, detto Giottino e, in parte, Giovanni da Milano. Ritengo anche di poter confermare la datazione di queste tavole al 1365-70, vale a dire nel periodo di esordio dell’artista, che nel 1369 era attivo a fianco del fratello maggiore in Vaticano[1].

Il collegamento fra questi dipinti e la lunetta ad affresco con la Madonna col Bambino e i santi Pietro e Agostino posta all’estremità meridionale del secondo chiostro del convento di Santo Spirito a Firenze, detto dell’Ammannati, appare fondato sulla base di caratteri stilistici sensibilmente coincidenti e verificabili. L’opera è descritta puntualmente dal Vasari nella Vita a lui dedicata: “E perché costui lavorava a capricci, e quando con più studio e quando con meno, in Santo Spirito pure di Firenze, dentro alla porta che di piazza va in convento, fece sopra un’altra porta una Nostra Donna col Bambino in collo, e Sant’Agostino e San Niccolò, tanto bene a fresco, che dette figure paiono fatte pur ieri”. L’affresco era noto già dalla metà dell’Ottocento ai padri fondatori della moderna storia dell’arte italiana: fu inciso da Giovanni Rosini nella sua Storia della pittura italiana e menzionato dai commentatori del Vasari-Le Monnier, mentre nel Vasari-Milanesi c’è la precisazione iconografica relativa allo scambio di san Pietro con san Nicola in cui era incorso lo storico aretino[2]. Il grande Cavalcaselle riconobbe la pittura in quella descritta da Vasari, ma soprattutto ne confermò l’attribuzione all’artista. Anche i Paatz la ricordarono con l’ubicazione indicata nella menzione vasariana, e tuttavia affermarono che allora non era più rintracciabile[3]. In epoca imprecisata e per motivi a noi sconosciuti, l’affresco dovette essere asportato mediante uno stacco ‘a massello’ dalla lunetta dove si trovava, verosimilmente in prossimità dell’accesso al convento da Piazza Santo Spirito, per esser trasferito nell’ubicazione attuale, nel secondo chiostro di Santo Spirito, in contiguità dell’ingresso alla cappella Corsini[4].

Il confronto fra il san Pietro della Collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze e lo stesso santo della lunetta di Santo Spirito risulta decisivo. Ribadisco qui, con piena convinzione, che la forte affinità culturale e stilistica va ben oltre la mera identità iconografica e investe caratteri e stilemi d’importanza cruciale: la mano sinistra del dipinto su tavola che sostiene il libro prelude in maniera sorprendente alla mano destra che nell’affresco tiene le chiavi, attributo del santo. Il disegno e la costruzione delle due mani risultano praticamente intercambiabili e persino la morbidezza con cui sono restituiti i panneggi della veste del santo si rivela di una similitudine assoluta. L’affresco di Santo Spirito documenta l’originalità e il livello qualitativo assai ragguardevole raggiunto dall’ultimo rampollo della più celebre dinastia di pittori della Firenze trecentesca, ma soprattutto dimostra la sua capacità di promuovere nell’ambiente artistico di quegli anni un’autentica svolta. Per Agnolo Gaddi, il quinquennio tra la lunetta di Santo Spirito e la pala della Galleria Nazionale di Parma, recante la data del 1375, dovette essere di grande accrescimento professionale e di pari intensità creativa.

Questa inedita Madonna col Bambino, contraddistinta da una luminosa tenerezza pittorica, riassume benissimo le migliori qualità del nostro autore nella sua prima fase di attività. Si tratta con ogni evidenza di una tavola decurtata purtroppo su ogni lato, persino nella parte superiore cuspidata, come vedremo più avanti. Il dipinto presentava in origine la figura intera della Vergine assisa sul trono, mentre sui lati la decurtazione deve essere stata piuttosto ampia, considerando l’andamento della decorazione marginale superiore, che lascia intendere una significativa dilatazione soprattutto nella parte inferiore della tavola. Sul tergo si trova un cartellino con incise tre righe di testo di non facile lettura, decifrabili solo in parte: “: “a 6 di Novembre /A Giovanni Giusti Speziale lire Novantadue / fo saldo della c(era) somministrataci per la Purificazione /dell’anno 1805. Portò detto conti come da sua ricevuta”, che tuttavia ha consentito ad Annamaria Bernacchioni di ipotizzare un’avvincente, plausibile ricostruzione delle vicende intorno all’opera nella Firenze del primo Ottocento. Le condizioni di conservazione della superficie pittorica possono dirsi generalmente buone, nonostante qualche abrasione più pronunciata in alcune parti, particolarmente evidente sul collo e nella capigliatura del Bambino. Va detto però, che le qualità pittoriche del giovane Agnolo si leggono distintamente nel dipinto, grazie soprattutto alla controllatissima pulitura effettuata da Loredana Gallo.

L’opera si trovava almeno dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso in una collezione privata fiorentina e risulta allo scrivente ancora criticamente inedita, ma compare in una preziosa foto dell’archivio di Federico Zeri (scheda n. 1945) in uno stato sensibilmente più antico, antecedente all’ultima decurtazione della parte superiore. Nelle due porzioni triangolari rimaste dopo una prima decurtazione del supporto e prima della loro ulteriore rimozione, si potevano intravedere distintamente i brani superstiti dell’estremità inferiore di due personaggi, identificabili probabilmente con la Vergine e san Giovanni dolenti ai piedi del Crocifisso, sullo sfondo di un terreno roccioso. I lembi superstiti dei due panneggi appaiono chiaramente distesi a terra – di consueto colore azzurro per il manto della Madonna a sinistra, di colore rosso a destra per il san Giovanni – in maniera tale da far supporre che le due figure fossero sedute a terra, secondo un’iconografia attestata in molteplici esemplari dell’epoca. In maniera assai significativa, uno degli esempi più calzanti di tale raffigurazione si riscontra nella bella tavola del Maestro della Misericordia, alias Giovanni Gaddi, delle Royal Collections of England (inv. n. 1219) di Hampton Court, con la Madonna col Bambino in trono fra otto santi, nella fascia di base il Redentore benedicente con l’Angelo annunziante e la Vergine annunziata, mentre nella cuspide è raffigurata per l’appunto la Crocifissione con i dolenti seduti a terra, senza alcuna divisione netta dal campo principale, se non quella della decorazione punzonata di quest’ultimo[5]. L’immagine della Fototeca Zeri documenta in maniera inequivocabile che le due porzioni asportate non erano aggiunte o riquadrature posteriori, bensì erano parte integrante del medesimo supporto della Madonna col Bambino, poiché non si nota alcuna cesura tra la superficie pittorica del paesaggio roccioso del Golgota e il fondo dorato punzonato del campo con la Madonna col Bambino. A riprova di ciò, si constata inoltre come la craquelure si distribuisce in maniera identica nei due campi.

Il motivo della decorazione punzonata marginale è assolutamente identico a quello che impreziosisce le tre cuspidi della pala di Parma, e questo dato induce a suggerire l’ipotesi, con tutte le cautele del caso, che anche la struttura compositiva originaria del complesso cui apparteneva la nostra Madonna anticipasse di qualche anno quella del dipinto per Santa Maria Novella. Se così fosse, l’opera avrebbe rappresentato un adeguamento ancor più ravvicinato nel tempo alla soluzione innovativa proposta da Andrea Orcagna nella pala Strozzi del 1354-1357: con la rappresentazione, quindi, di uno spazio unitario nel registro principale, mentre nella parte superiore essa mantiene l’articolazione cuspidata dei vari elementi della composizione[6].

Resta tuttavia assai probabile l’ipotesi più tradizionale, secondo la quale la nostra Madonna col Bambino fosse al centro di un trittico o polittico a scomparti, come quello oggi conservato alla Walters Art Gallery di Baltimora, che presenta un punto di stile perfettamente coincidente con essa. Tuttavia, il raffronto in assoluto più puntuale sul piano stilistico – nonostante la diversa tecnica di esecuzione – è quello tra il volto della Madonna ad affresco della lunetta nel secondo chiostro dell’ex-convento di Santo Spirito a Firenze e quello della nostra tavola. I tratti morelliani si sovrappongono nel senso letterale: le ciglia sottilissime, il taglio degli occhi, il naso, per non dire poi del disegno del prolabio e della bocca, assolutamente identici. Tale identità suggerisce una strettissima contiguità di esecuzione tra i due dipinti, da porre secondo noi intorno al 1370 o subito dopo. Non abbiamo alcun elemento concreto per indicare un ambito definito per la commissione del complesso cui appartenne il dipinto qui presentato, che è comunque ipotizzabile in una delle chiese più importanti di Firenze. E d’altra parte, una simile ipotesi è sorretta in primo luogo dalla destinazione di prim’ordine delle opere più vicine al nostro frammento che abbiamo sin qui menzionato: il convento degli Agostiniani di Santo Spirito e la chiesa di Santa Maria Novella dei Domenicani. E devo dire che personalmente propendo proprio per la chiesa dei Predicatori per l’ipotetica committenza del nostro complesso d’altare, che verrebbe da immaginare posto in stretta relazione con il Sepolcreto Strozzi, magari in prossimità dell’ingresso, e oltretutto collegato benissimo ad esso sul piano iconografico, stante la scena della Crocifissione che con ogni probabilità si trovava nella parte superiore, connessa quindi in via diretta al Compianto sul Cristo mortoaffrescato sulla parete di fondo di quell’ambiente. Anche le dimensioni non eccessivamente dilatate, per quanto si può desumere dal frammento giunto fino a noi, sembrerebbero più consone alla possibile destinazione originaria qui adombrata. Naturalmente non è possibile escludere un’eventuale provenienza dalla chiesa di Santa Croce, per la quale il nostro artista sarà largamente attivo in una fase sensibilmente più inoltrata rispetto ai suoi esordi, nei vasti cicli ad affresco della cappella Castellani, con Storie e figure di santi – databile dopo il 1383 –, e della cappella maggiore, con la celebre Leggenda della Croce, ritenuto generalmente eseguito negli anni 1385-87.

Il trono su cui siede la nostra Madonna è riconducibile nell’alveo della più pura tradizione giottesca e rimanda, ad esempio, a quello che compare nella vetrata della cappella di san Ludovico in Santa Croce, nella raffigurazione della Madonna in trono, disegnata da Taddeo Gaddi ed eseguita secondo quanto testimoniato da iscrizioni sulla stessa vetrata, da “FRATER UBALDUS DE VITRO E FRATER GHERARDINUS PILLECTI DE FLORENTIA”, due maestri vetrai appartenenti evidentemente all’ordine francescano[7]. Il gesto di spiccata tenerezza del Bambino che cinge il collo della Madre e accosta il volto alla sua guancia si ritrova in molti esemplari di Agnolo. Questa tipologia affettuosa si ricollega alle esortazioni del Beato Giovanni Dominici (1357 c. - 1419), il grande predicatore domenicano che godeva di grandissima popolarità nella Firenze dell’ultimo quarto del Trecento, e indicava esplicitamente agli artisti l’adozione di soggetti di grande intensità affettiva, per la corretta educazione dei fanciulli[8]. Il confronto più stringente appare tuttavia quello con un’anconetta più tarda di alcuni anni, che secondo una nota autografa di Federico Zeri sulla foto conservata nella sua fototeca appartenne alla collezione Contini-Bonacossi a Firenze, mentre nel 1968 era in collezione privata a Roma[9]. Nei due esemplari alcuni dettagli si corrispondono esattamente, quali ad esempio le dita della mano destra del Bambino che spuntano da dietro il collo della Madonna, la fascia che gli stringe la vita, e il piede sinistro che si vede subito al di sotto della mano destra della Madre.

Le rilevanti qualità pittoriche e la forte carica innovativa della fase giovanile di Agnolo Gaddi, riaffermate dalla Madonna col Bambinoqui illustrata, si riscontrano ancora al medesimo livello nei frammenti superstiti dell’importante decorazione ad affresco dell’ex- convento di San Domenico del Maglio a Firenze – restituitagli per primo da Boskovits –, cui sono da ricollegare i pagamenti al pittore attestati nel 1376, che rappresenta quindi la sua prima opera documentata[10]. Con questa impresa, che forse costituì la prima commissione importante nel campo della decorazione monumentale, si conclude secondo noi la rassegna del nucleo di opere riferibili alla prima fase dell’attività di Agnolo Gaddi.

Le tappe successive del percorso dell’artista esulano dai limiti cronologici fissati per questo intervento, durante le quali egli consolidò la sua posizione preminente nel contesto fiorentino dell’ultimo Trecento, sia mediante la produzione di numerosi complessi d’altare per le chiese più importanti, sia con un’intensa produzione per la devozione domestica, per la quale egli dovette sovente giovarsi in misura maggiore degli aiuti presenti nella sua organizzata bottega. Tuttavia, fu soprattutto con i grandi cicli ad affresco in Santa Croce, nella Cappella Maggiore di Santa Maria del Carmine con le Storie della Vergine – descritto da Vasari ma andato perduto[11] –, e con gli affreschi con Storie della Vergine e della Sacra Cintola nella Cappella del Sacro Cingolo a Prato[12], che egli trasmise i dettami costitutivi del linguaggio tardogotico in pittura ai suoi più diretti continuatori, Lorenzo Monaco, il Maestro della Madonna Straus – il probabile Ambrogio di Baldese –, Bartolomeo di Fruosino e molti altri, fino ai pittori dell’Umanesimo tardogotico, quali ad esempio, Giovanni Toscani, Masolino, Ventura di Moro e altri. In conclusione, appare opportuno sottolineare però, la rilevanza precipua della sua attività giovanile nel promuovere un’autentica svolta verso un linguaggio nuovo, con il quale restituire in pittura gli affetti umani e la devozione cristiana in maniera più accostante e gioiosa, come traspare in maniera affatto palese dalla Madonna col Bambino qui presentata.

 


[1] A. Tartuferi, Un’ipotesi di lavoro per gli esordi di Agnolo Gaddi, in “Arte Cristiana”, CIV, 2016, 897, pp. 429-434.
[2] Id., Una nota per l’esordio di Agnolo Gaddi, “Antichità Viva”, XXXV, 1996, 4, pp. 3-7. G. Rosini, Storia della pittura italiana, II, Pisa 1840, p. 166; G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, ed. a cura di V. Marchese, C. Pini, G. Milanesi, II, Firenze 1846, p. 152 nota 4; Id, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, ed. a cura di G. Milanesi, I, Firenze 1878, p. 635; cfr. inoltre, Id, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, a cura di R. Bettarini e P. Barocchi, II, Commento, Firenze 1969, p. 629.
[3] J. A. Crowe, G. B. Cavalcaselle, A new History of Painting in Italy from the second to the sixteenth century, I, London 1864, p. 472; G. B. Cavalcaselle, J. A. Crowe, Storia della pittura italiana dal secolo II al secolo XVI, II, Firenze 1883, p. 195, nota 2; W. e E. Paatz, Die Kirchen von Florenz, V, Frankfurt-am-Main 1953, pp. 154 e 201, nota 265.
[4] Cfr. Tartuferi cit., 1996, p. 5, fig. 3; Id., L’arte dell’età gotica, in La chiesa e il convento di Santo Spirito a Firenze, a cura di C. Acidini Luchinat, Firenze 1996, pp. 49-51, figg. 1-4.
[5] Per il dipinto cfr. S. Chiodo, Painters in Florence after the ‘Black Death’: the Master of the Misericordia and Matteo di Pacino, “A critical and historical corpus of Florentine painting”, IV, IX, Florence 2011, pp. 304-306, plate L.
[6] Per la pala Strozzi di Andrea Orcagna si veda ora G. Ravalli, L’egemonia degli Orcagna e un secolo di pittura a Santa Maria Novella, in Santa Maria Novella. La basilica e il convento, I, Dalla fondazione al tardogotico, a cura di A. De Marchi, Firenze, 2015, pp. 151-245 (pp.161-164, 168, 180), che sottolinea giustamente l’importanza delle anticipazioni di questo tema strutturale e compositivo riscontrabili a Siena.
[7] A. Ladis, Taddeo Gaddi. Critical reappraisal and catalogue raisonné, Columbia (Missouri Univ.) 1982, p. 132; J. Tripps, Le vetrate dipinte della Cappella Maggiore, in C. Frosinini, Agnolo Gaddi e la Cappella Maggiore di Santa Croce a Firenze. Studi in occasione del restauro, Milano, 2014, pp. 137-147 (pp. 138-139).
[8] M. Boskovits, Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento 1370-1400, Firenze 1975, p. 81, 85; per il timbro lirico delle prediche di Giovanni Dominici, cfr. D. Coppola, La poesia religiosa del secolo XV, Firenze 1963, pp. 60-66; G. Festa, Giovanni Dominici e i primi conventi dell’osservanza domenicana in Italia, in “Memorie Domenicane”, 2009, pp. 113-128.
[9] Fototeca Zeri, scheda n. 1943.
[10] Cfr. Boskovits cit., 1975, pp. 119, 234 nota 142, 298; per i documenti che attestano i pagamenti all’artista nel 1376, si veda A. Labriola, voce Gaddi, Agnolo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 51, Roma 1998, pp. 144-148 (p. 144).
[11]  Per gli affreschi perduti del Carmine, cfr. A. Tartuferi, Le testimonianze superstiti (e le perdite) della decorazione primitiva (secoli XIII-XV), in La chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze, a cura di L. Berti, Firenze 1992, pp. 143-171 (pp. 168-169).[12] Per questo ciclo si rimanda al volume La Sacra Cintola nel Duomo di Prato, Prato, 1995, e in particolare al saggio di M. Ciatti, Gli affreschi della Cappella della Cintola, pp. 163-223.