Jacopo del Casentino
(Pratovecchio 1295/1300 - 1349 )
Ultima Cena - San Francesco Riceve le Stigmate, c. 1320
tempera su tavola, fondo oro, 33,3 x 15,6 cm (13.11 x 6.14 inches)
- Riferimento: 807
- Provenienza: collezione privata
Bibliografia:
Fototeca Zeri
n. 8826
Questo piccolo dipinto, intenso e animato, consiste con ogni evidenza nel frammento superstite dello sportello di un tabernacolo portatile per la devozione privata, come suggeriscono sia le dimensioni, sia la diversità della serie iconografica – le Storie di Cristo e la Leggenda di san Francesco – richiesta di solito dal committente di questi manufatti, che ebbero nondimeno grandissima fortuna nella prima metà del XIV secolo.
La parte superiore di questi sportelli si concludeva con una porzione in forma triangolare o di semilunetta, dove erano dipinti altri episodi, oppure le due figure dell’Annunciazione. Tuttavia, la prova più evidente che siamo di fronte a un frammento superstite dello sportello di un tabernacolo è data dai resti delle gangherelle sul tergo, lungo il lato sinistro, vale a dire dalla parte destra guardando la parte dipinta. Quest’ultima apparteneva quindi allo sportello sinistro, fissato per l’appunto all’elemento centrale lungo il lato destro. Un altro particolare interessante è dato dalla decorazione punzonata nell’angolo superiore destro, sopra la scena dell’Ultima cena, dalla quale si evince che la cuspide mancante era di forma triangolare ed era alta circa 14 centimetri.
L’iconografia dell’Ultima cena è quella tipica dell’epoca antica, con Gesù seduto all’estremità del tavolo, che ha appena annunciato ai discepoli che uno di loro lo tradirà. Il dettaglio di uno dei discepoli – “quello che Gesù amava”, cioè Giovanni –, con il volto chino sul petto del Salvatore, è riportato per l’appunto soltanto nel Vangelo di Giovanni (Giovanni: 13, 23- 26). È questo l’attimo in cui l’evangelista, sollecitato da san Pietro, si stringe a Gesù chiedendogli chi sarà a tradirlo.
Soprattutto in epoca così antica, il tema iconografico relativamente raro dell’Ultima cena era di solito accostato, e per meglio dire, subordinato a una raffigurazione principale della Crocifissione, come accade nell’affresco grandioso di Taddeo Gaddi nel refettorio del convento di Santa Croce a Firenze. In quel luogo i frati vedevano nell’Ultima cena la promessa di Gesù di offrire il suo corpo e il suo sangue “per la remissione dei peccati” e, al di sopra di essa, la Crocifissione – in forma di Lignum Vitae, in riferimento al testo di san Bonaventura –, vale a dire l’attuazione concreta di quella promessa[1]. Tuttavia, questo concetto teologico era sovente illustrato anche in scala dimensionale enormemente ridotta, nelle centinaia di altaroli per la devozione domestica che venivano prodotti nelle botteghe artistiche del tempo. Pertanto, è da ritenere assai probabile che al centro del tabernacolo di cui faceva parte il frammento qui discusso si trovasse proprio una Crocifissione. Molto più diffusa risulta invece la raffigurazione delle Stimmate di san Francesco, massima epitome iconografica, forse, dell’universo francescano, a cominciare degli esempi più antichi, quali si riscontrano nei cicli narrativi delle pale francescane di Pescia, firmata e datata 1235 da Bonaventura di Berlinghiero, e della cappella Bardi in Santa Croce a Firenze, opera di Coppo di Marcovaldo. La versione illustrata nel dipinto presente è quella di fonte giottesca, sullo sfondo di un paesaggio scosceso, con alberi radi e dalle chiome folte, con il santuario della Verna posto in tralice e i gustosi particolari naturalistici della tavola impiegata come ponticello sul piccolo corso d’acqua antistante, e inoltre l’altare dell’antro del Sasso Spicco della Verna nel margine sinistro alle spalle di san Francesco. Particolarmente vivace si rivela la postura del Serafico, nell’attimo in cui torce il busto all’indietro e volge lo sguardo in alto verso il Cristo-Serafino, da cui si dipartono i raggi incisi nettamente sul fondo dorato – che sullo sfondo delle rocce e della veste del santo diventavano anch’essi dorati, come si desume dai brani superstiti – diretti a imprimere i sacri segni sul suo corpo. La raffigurazione delle Stimmate di san Francesco compare molte volte nei dipinti del pittore casentinese, proprio negli sportelli laterali dei trittici portatili, a cominciare dal cosiddetto trittico Cagnola, l’unica opera firmata dell’artista arrivata fino a noi (inv. 1890, n. 9258), trasferita nel 2019 dalle Gallerie degli Uffizi alla Galleria dell’Accademia di Firenze. Tuttavia, la raffigurazione più vicina alla nostra, soprattutto dal punto di vista della composizione, è quella che si trova nella parte superiore dello sportello sinistro di un tabernacolo disperso, che si conserva insieme allo sportello destro nella Pinacoteca Malaspina dei Musei Civici di Pavia (inv. n. 166) e la cui parte centrale è stata individuata nella Madonna col Bambino in trono fra angeli, santi e due donatori genuflessi (inv. n. 842) dello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte[2]. La similitudine delle due scene riguarda anche alcuni dettagli, quali l’edificio della Verna, la tavola impiegata come ponte sul fiume, l’altare entro la roccia alle spalle di san Francesco, sebbene i caratteri stilistici riscontrabili nei frammenti di Pavia, in particolare le eleganti proporzioni allungate dei personaggi, suggeriscano una data sensibilmente più inoltrata nel percorso dell’artista – nella seconda metà degli anni trenta – rispetto alla nostra tavolina. Quest’ultima è arrivata fino a noi in condizioni generalmente buone di conservazione, con lievi abrasioni della superficie pittorica riscontrabili soprattutto nella scena con l’Ultima cena, in particolare nella tavola imbandita e nelle due figure in primo piano sedute sugli sgabelli.
L’opera comparve in asta a Londra da Christie’s, l’8 luglio 1977 (n. 108), con il riferimento a un “Close follower of Giotto”[3]. Dalla scheda n. 8826 della Fototeca Zeri apprendiamo che nel 1979 il piccolo dipinto era segnalato ancora a Londra in collezione privata, ma soprattutto che egli lo classificava come di un pittore riminese del primo Trecento. Un giudizio del quale occorre naturalmente tenere conto, al pari di tutti quelli espressi dal grandissimo conoscitore, che dovette essere attratto soprattutto dal forte timbro giottesco della prima ora, che caratterizza per l’appunto i dipinti riminesi più antichi, tuttavia non valutando adeguatamente l’altro dato stilistico fondamentale, quello cioè della matrice culturale fiorentina. E non a caso, il riferimento inequivocabile del dipinto alla vasta attività di Jacopo del Casentino era già stato comunicato verbalmente in tempi più recenti alla proprietà da Miklós Boskovits. Nel folto corpus dell’artista si può riscontrare infatti, durante l’intero arco di attività, la compresenza di esemplari caratterizzati da un disegno e da una stesura pittorica di timbro sommario e di gusto popolareggiante, come in questo caso, e di esemplari che invece appaiono molto più curati, sia nel disegno che nella definizione particolarmente raffinata delle forme e dei panneggi, nel contesto di un’atmosfera talvolta di tono aulico. In senso generale, si può dire che nelle opere più antiche uscite dall’affermata bottega fiorentina di questo fedele e al tempo stesso, originale seguace del Giotto fiorentino, risulta più frequente incontrare prodotti dalla stesura corsiva, simili al frammento qui discusso. Utili elementi ai fini della corretta classificazione critica e cronologica del nostro dipinto si possono derivare anche dalla ricca decorazione dei margini del fondo oro e delle aureole dei santi, eseguita perlopiù a mano libera, con l’impiego di un bulino: un connotato, quest’ultimo, indice di una datazione relativamente precoce. Essa è tipica dei dipinti riferiti da tempo a Jacopo del Casentino: la fascia di rombi da cui si originano gli archetti che si riscontrano sui margini laterali del fondo oro nella raffigurazione delle Stimmate è assai simile a quella che si ritrova nel già menzionato tabernacolo Cagnola oggi trasferito alla Galleria dell’Accademia. Anche le aureole raggiate dei sacri personaggi, eseguite con incisioni piuttosto irregolari, sono affatto consuete nei dipinti della fase giovanile del pittore. Questi aspetti della decorazione del fondo oro si ritrovano molto simili anche in un ulteriore frammento da un tabernacolo disperso in una raccolta toscana, ancora criticamente inedito ma già presentato dallo scrivente nel corso di una conferenza tenuta presso la Cassa di Risparmio di Firenze nel 2016[4]. Nel piccolo lacerto, di cm 15,3 x 10, compare una giovane santa martire recante nella destra un’esile foglia di palma, mentre con la sinistra raccoglie un lembo dell’ampio mantello di colore verde indossato sopra una veste rossa, dallo scollo non troppo ampio. Il riferimento a Jacopo del Casentino anche per questo ulteriore frammento pittorico mi fu confermato da Miklós Boskovits, che ne rimarcava inoltre la probabile datazione relativamente alta[5]. La sensibile affinità stilistica e della stesura pittorica suggeriscono, a nostro avviso, di non escludere del tutto la possibilità che i brani pittorici qui discussi appartenessero in origine a uno stesso tabernacolo portatile poi smembrato: in tal caso la santa – rivolta verso sinistra per chi guarda – si sarebbe trovata nello sportello destro, mentre le due scene qui considerate erano nello sportello sinistro. In ogni caso, è certo che siamo in presenza di frammenti che difficilmente potrebbero datare oltre i primissimi anni Venti del Trecento.
I confronti più interessanti ricorrono proprio con le opere più antiche attribuibili a Jacopo del Casentino. Si veda, ad esempio, l’autentica aria di famiglia che lega i personaggi dell’Ultima cena e del san Francesco a quelli che compaiono nella piccola Madonna col Bambino pubblicata dallo scrivente molti anni or sono, di cui ignoro l’attuale ubicazione[6]. Si tratta della fase in cui il pittore esprime in maniera più intensa l’adesione ai moduli formali giotteschi: si veda il fortissimo timbro giottesco del trono e del gruppo centrale, che traspare anche dalle Stimmate di san Francesco della tavola qui commentata.
[1] Cfr. T. Verdon, Il significato religioso delle pitture nei refettori, in La tradizione fiorentina dei cenacoli, a cura di C. Acidini Luchinat e R. Caterina Proto Pisani, Firenze 1997, pp. 31-43 (pp. 35-37).
[2] Cfr. R. Offner, M. Boskovits, Elder Contemporaries of Bernardo Daddi, “A critical and historical corpus of Florentine painting”, III, II, Florence 1987, pp. 498-501.
[3] 3 Cfr. il catalogo di vendita: Londra, Christie, Manson & Woods, Highly Important Old Master Pictures, 8/7/1977, p. 100, n. 108.
[4] A. De Marchi, A. Tartuferi, Anconette e polittici: due percorsi fra i dipinti antichi (Firenze, Fondazione Biblioteche Cassa di Risparmio, Sala conferenze, 7/12/2016).
[5] Comunicazione scritta del 19 aprile 2010.
[6] A. Tartuferi, Corpus of Florentine Painting. Nouveautés sur le Trecento, in “Revue de l’Art”, LXXI, 1986, pp. 43-70 (pp. 45, 46, n. 15); Id., in Offner, Boskovits cit., 1987, pp. 588-589. L’opera è ricomparsa sul mercato a Venezia: Venezia, San Marco aste, Importanti sculture, oggetti d’arte, marmi, bronzi, arazzi antichi, 18/3/2007, n.71.